Washington, D.C., dicembre 2015. Aretha Franklin si esibisce accompagnandosi al piano, e poi alzandosi verso il pubblico. Il brano che propone è (You Make Make Me Feel Like) A Natural Woman, in assoluto uno dei più belli della carriera, da lei originariamente registrato nel 1967. Tra i presenti Barack Obama, visibilmente commosso, insieme alla moglie Michelle, mentre Carole King (co-autrice della canzone) non riesce a contenere emozione ed entusiasmo. E’ una testimonianza che l’ultrasettantenne cantante e pianista, quando vuole, è ancora “The Queen of Soul”.
E’ dalla seconda metà dei Sessanta che Aretha Louise, figlia del reverendo Clarence LaVaughn Franklin e di Barbara V. Siggers, è divenuta una icona della cultura musicale, non solo afroamericana.
Nasce a Memphis il 25 marzo del 1942. Dopo un periodo a Buffalo, la famiglia si stabilisce a Detroit. Di lì a poco i genitori si separano: la madre se ne va insieme a Vaughn, figlio di una precedente relazione. Aretha rimane col padre, insieme alle sorelle Erma e Carolyn, al fratello Cecil, e alla nonna paterna Rachel, affettuosamente chiamata Big Mama.
Il Reverendo C.L. Franklin è il carismatico pastore di una chiesa battista, e i suoi sermoni, seguitissimi, vengono trasmessi per radio, ottenendo poi anche un consistente successo discografico. Nel tempo diviene amico di Martin Luther King, Jesse Jackson e altri attivisti, impegnati nelle battaglie per i diritti socio-razziali che coinvolgeranno, pur moderatamente, anche Aretha. La loro casa è frequentata da grandi artisti quali Mahalia Jackson, Clara Ward, Sam Cooke, che hanno notevole influenza sulla futura star.
Aretha rivela un precoce talento pianistico e qualità vocali non comuni, tanto da effettuare, ancora adolescente, alcune registrazioni dal vivo, insieme al padre.
Nel contempo vive però anni difficili, sia per la morte della madre (che periodicamente andava a trovare), nel ’52, che per la nascita di due figli: il primo nasce quando Aretha ha quattordici anni e il secondo due anni dopo; le paternità, mai rivelate, alimentano supposizioni di vario genere. Altri due figli nasceranno dai matrimoni con Ted White e Glynn Turman, sposati rispettivamente nel 1961 e nel 1978.
Verso la fine dei Cinquanta, anche spinta dall’amico Sam Cooke, decide di varcare i confini religiosi della sua musica. Il padre non si oppone: da sempre, in casa Franklin si ascolta di tutto. Il produttore John Hammond le procura un contratto con la Columbia, e all’alba dei Sessanta lei inizia una carriera che, in un quinquennio, la porta a incidere una decina di album, pop e blues-jazz, alcuni realizzati con formazioni orchestrali. Dischi di buona qualità media, che riprendono anche standard, con riferimenti alle varie Dinah Washington (a cui dedicherà un album), Billie Holiday, ecc., ma con arrangiamenti che, per quanto accurati e a volte sontuosi, raramente esaltano pienamente il suo potenziale vocale e la sua abilità pianistica.
Tutto cambia quando, nel ’66, in piena era soul, Aretha passa all’Atlantic, una delle grandi case discografiche indipendenti del dopoguerra. Ben coadiuvata da produttori e musicisti, incide alcuni gioielli, a partire dalla ballad I’ve Never Loved A Man (The Way I Love You), che dà il titolo all’album d’esordio (1967), da Respect, prelevato dal repertorio di Otis Redding e da lei rimodellato in forma di prepotente “inno” di rivalsa femminile (raggiunge il n.1, anche nelle classifiche di vendita pop); dalla citata A Natural Woman e da Chain of Fools. In breve si parla di lei come della “Queen of Soul”, nomina consolidata da varie performance che la portano anche in Europa, e che le rimane nel tempo, nonostante diverse incisioni mediocri degli anni successivi.
Arteha porta nella musica
caratteristiche vocali pressoché inconfondibili; grande estensione e utilizzo delle coloriture specifiche derivate dai canti della chiesa protestante, che
testimoniano la fede con maggiore fisicità e visceralità rispetto agli spiritual: proprio quelle che sono le radici interpretative da cui deriva il soul. E anche un tratto pianistico che non va sottovalutato, una miscela fra le cadenze gospel e quelle blues, vicine allo stile tipico di Ray Charles.
Vincitrice di numerosi Grammy Awards, ma in calo di vendite, dalla metà dei ’70 “Ree” – come è affettuosamente chiamata -, tenderà a seguire le richieste del mercato discografico che richiede generi e arrangiamenti più commerciali (pop, disco, fusion).
Ma prima regala qualche brano magnifico, come Spirit In The Dark e Young Gifted and Black, famoso brano di Nina Simone divenuto uno degli inni dell’orgoglio nero. Si misura anche con due brani beatlesiani, Eleanor Rigby e Let It Be. Non dimentica i propri riferimenti religiosi, e nel ‘72 arriva l’album gospel Amazing Grace: registrato con l’apporto di uno dei suoi maestri, il Rev. James Cleveland (tastierista e direttore del coro), il disco ottiene un grande successo, anche critico.
Ombre e luci dei Settanta la relegano un po’ in secondo piano ma, nel 1980, la sua brillante performance nel film The Blues Brothers – come moglie che si ribella al marito chitarrista -, al ritmo di Think, riproposizione del suo hit del ’68, la conferma come riferimento del r&b-soul. Qui, come in altre occasioni, a supportarla ci sono anche le sorelle, che a loro volta vantano una carriera discografica, seppure di non grandi soddisfazioni (di Erma è la versione originale di Piece of My Heart, più nota nell’interpretazione di Janis Joplin).
Dall’Atlantic passa all’Arista e, oltre ad alcuni hit personali – Jump To It, Get It Right, Freeway of Love e Who’s Zoomin’ Who, i maggiori -, altri bei risultati commerciali le arrivano dai duetti con Luther Vandross, Keith Richards, e soprattutto con George Michael. Intanto, dopo un volo drammatico, matura la sua decisione di non viaggiare più in aereo. Nell’87 a Detroit, nella chiesa del padre (scomparso nell’84, dopo anni di coma, in seguito a un’aggressione), Aretha registra One Lord, One Faith, One Baptism, a cui contribuiscono molti artisti di fama, tra cui la grande Mavis Staples, le sorelle (Carolyn morirà l’anno successivo) e Cecil (che scompare nell’89). Un prodotto ambizioso, quanto disomogeneo, con troppi interventi verbali, che non eguaglia il precedente album gospel.
In definitiva, gli Ottanta non sono confortati da album di qualità paragonabili a quelli del passato, ma terminano con i buoni risultati commerciali dei duetti con Elton John e Whitney Houston.
Anche nel decennio successivo si alternano ombre e luci, cui contribuiscono, nel ’98, rispettivamente l’album A Rose Is Still A Rose e la sua interpretazione di Nessun dorma (dalla Turandot di Puccini), alla cerimonia di consegna dei Grammy, in sostituzione di Luciano Pavarotti. L’anno dopo esce From These Roots, la sua biografia: piuttosto deludente, anche per la reticenza a raccontare alcuni passaggi importanti della sua vita in modo sincero e non variamente agiografico.
Nel nuovo secolo, mentre muore Erma (’02), la sua presenza discografica si fa sempre più rara (un discreto So Damn Happy nel 2003), ma lei ottiene anche dei riconoscimenti quali la “Presidential Medal of Freedom” assegnatale da George W. Bush (’05).
Nel 2010, il tentativo di lanciare una propria etichetta fallisce alla prima uscita discografica, mentre buoni risultati qualitativi arriveranno nel 2014 da Aretha Franklin Sings the Great Diva Classics, in cui riprende brani resi famosi da Barbra Streisand, Gloria Gaynor, Supremes, Alicia Keys e Adele, tra le altre.
aprile!